La mia vita è una performance
Anni ’40
Anni ’50
Avevo ereditato da mio padre la passione per la lettura e per i libri. Poi la televisione e il giradischi presero il sopravvento e la mia casa diventò la discoteca dei ragazzi del cortile. Voleva che facessi la maestra ma io sognavo Sanremo. Ho sempre cantato, da piccola mio padre mi faceva sedere su una seggiolina sul tavolo e quando si radunavano i parenti mi faceva esibire. A scuola la maestra mi faceva cantare in classe.
Anni ’60
Durante l’adolescenza anziché nascondere il corpo lo enfatizzavo tingendo i capelli di biondo, portando profonde scollature e vestiti trasgressivi che nel contesto della carrozzina facevano di me un personaggio sicuramente molto appariscente, una sorta di installazione mobile. Ero abituata alla sovraesposizione e trasportai anche nella vita politico-femminista questa comunicazione polisemantica.
Il tutto sintetizzato in 5 parole: attrazione, repulsione, paura, coraggio, sfida.

Anni ’70
Anni ’80
È stato un periodo di ricerca importantissimo, perché attraverso l’elettronica ho espresso tutte le mie potenzialità creative e innovative in piena libertà espressiva. Ma le case discografiche, siamo nel 1983, dicevano che non ero commerciale soprattutto per la mia immagine di donna disabile. Venivo censurata proprio per questa mia immagine di donna non adeguata agli standard di quegli anni!
Anni ’90
Tutto ciò non mi ha però fermata e nel 1990, dopo varie peripezie, ho cantato la sigla di chiusura del Cantagiro per 10 settimane in giro per l’Italia, assieme ad altri volti noti della musica. Sono stata sicuramente la prima donna cantautrice disabile italiana a comparire ripetutamente in televisione sui canali della RAI e sulle reti private, a fare concerti e tournée in Francia, Germania, Londra, Copenaghen, oltre che nel territorio nazionale. Ma il business discografico non mi ha reso giustizia. In un contesto di rappresentazione della vita e della società, non in quanto Società dello Spettacolo ma in quanto Spettacolo della Società, io ne ero esclusa, perché non rientravo nei paradigmi dei modelli televisivi e discografici. Ma quando nel 1922 feci il disco sulla diversità, DONNE A MARRAKECH, allora venni contattata e invitata nelle tv pubbliche e private, proprio per rappresentare l’artista disabile come esempio di valore. In ogni caso, non venivo mai semplicemente rappresentata come un’artista uguale gli altri, ma proposta in quanto bandiera di inclusione sociale. Proprio per questo motivo venivo esclusa dai format televisivi del tipo varietà, gare canore e Festival musicali quali Sanremo! E venni esclusa per un pelo. Inviai la mia canzone ma siccome partecipava anche Pier Angelo Bertoli, sostenuto da Caterina Caselli, Aragozzini disse “Due carrozzine sono troppe!”
Ho proseguito facendo teatro, cinema e video, sempre alla ricerca di nuove auto-rappresentazioni artistiche. La partecipazione al film Perdiamoci di vista di Carlo Verdone, il Roxy Bar, la Festa della Befana sono solo alcuni dei progetti di questi anni.
Anni 2000
La mia vita resta, comunque, una lunga performance: ogni mia azione, ogni mia uscita è una esibizione, una provocazione al senso comune di normalità, una trasgressione automatica, involontaria che costringe a una sorta di rifondazione dei principi dell’arte e dell’artista, a costruire nuovi parametri, nuovi paradigmi mettendo in discussione mode e stili. Arte come lotta, come esperienza non ideologizzata, il mio percorso resta una sfilata continua su una passerella riflessa da uno specchio, lo specchio liquido della vita.